Mobilità: l’Istat “corregge” il fenomeno delle dimissioni volontarie dal lavoro

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Roma – Ogni settore produttivo denuncia, lo si legge tutti i giorni, la mancanza di personale, soprattutto di personale formato se non proprio ad alta specializzazione.

di Enzo Millepiedi
Preoccupano sempre di più i “vuoti” di personale che spingono a moltiplicare le iniziative per arginare, al di là della demografia domestica, almeno questo fenomeno per molti aspetti nuovo e dirompente per un momento storico molto fluido per quanto riguarda l’occupazione.
Certo la demografia (cioè il progressivo svuotamento delle culle) ha il suo peso ma non è solo una questione di decrescita della popolazione nel Vecchio Continente.
A questo si aggiunge un mutamento antropologico nei confronti del lavoro, messo in evidenza dall’alta percentuale di dimissioni volontarie di chi, si diceva solo un anno fa con riferimento agli Stati Uniti, non cercava un cambio di azienda. Erano cioè dimissioni alla cieca, senza un’alternativa a portata di mano.
Un fenomeno così impostato che in Italia, secondo gli ultimi rilevamenti dell’Istat, ha subito una ragionata correzione. Nel nostro Paese risulta infatti che le dimissioni da una azienda sono motivate dalla volontà di un cambio di passo, quindi legate perlopiù a trasferimenti da un posto di lavoro ad un altro in cerca di condizioni migliori.
Così letto e interpretato, il fenomeno sta determinando una metamorfosi sconosciuta solo fino a qualche anno fa, quasi sia l’ultimo miglio della decadenza del mito del posto fisso che lasciavi solo il giorno della pensione. La precarietà spesso imposta pare stia diventando, in certi settori, una scelta. Che pone le aziende di fronte a una realtà capovolta, spiegata così. Concluso il colloquio di lavoro era il selezionatore che diceva “le faremo sapere”. Ora sempre più spesso è il candidato a dire “le farò sapere”.

A prevalere oggi risulta essere insomma il conseguimento della qualità della vita che investe sì l’aspetto economico ma anche il benessere psicologico. Per cui sta crescendo anche l’interesse dei datori di lavoro, sia nel pubblico che nel privato, verso il benessere psicologico dei propri dipendenti, che ha conseguenze positive sulla qualità della vita dei dipendenti ma anche sulla produttività delle aziende. Perché un lavoratore che sta bene fa meno assenze e svolge meglio le proprie mansioni. Come ha annotato Rossella Capecchi.

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