Tempo di lettura: 3 minuti LA SPEZIA – E’ di ieri l’intervento di Andrea Fontana in rappresentanza della Community portuale della Spezia e dell’Associazione degli Agenti marittimi, che presiede, sulle ipotesi di riforma del sistema portuale italiano. di Enzo Millepiedi L’intervento di ieri di Andrea Fontana sulla eventuale “privatizzazione” dei porti ha chiaramente la valenza e il merito di un contributo a un dibattito fino ad ora più a senso unico. Ed è uscendo dal coro che l’imprenditore di lungo corso Fontana usa la meraviglia – ricorrendo alla figura retorica dell’iperbole (“L’Italia è davvero un Paese strano”) – per mettere a confronto, che deve essere il più aperto possibile, ma anche meno teorico e più concreto, l’oggi e il “caso Spezia”. Caso che pur lodato per decenni per il suo successo (e per questo pure invidiato) non è mai stato studiato a fondo né tantomeno emulato o quantomeno sperimentato altrove. Se così fosse stato, infatti, oggi avremmo il contributo di un caso appunto di scuola almeno utile come termine di paragone. Che ci ricorda dunque e dice Andrea Fontana? Semplicemente che “l’unico porto in cui un privato si è costruito il suo terminal, partendo dalle banchine sino ad arrivare alle gru passando per piazzali, uffici, sistema informatico, è stato La Spezia”. Per cui “quando si parla di privatizzazione degli scali marittimi italiani forse non si potrebbe e non si dovrebbe prescindere da questa esperienza di successo che è e rimane un unicum”. E a gamba tesa, in tempi di dilagante “opinionismo” come direbbe Giuseppe De Rita, osserva: “L’Italia – è davvero un Paese strano nel quale anche a fronte di esperienze di successo, prevale la volontà di reinventare tutto e di riscrivere norme e parametri. Nel caso del La Spezia Container Terminal, considerato anche per i suoi incontestabili successi, una cellula anomala della portualità nazionale la formula è stata tanto semplice da apparire oggi banale”. E spiega: “Un imprenditore privato ha messo a disposizione le risorse per finanziare la costruzione di un terminal container che non esisteva, lo ha allestito e fatto funzionare con standard di efficienza e produttività per anni irraggiungibili altrove. Per parte sua, lo Stato attraverso le sue emanazioni locali, che non si chiamavano ancora Autorità di Sistema Portuale, ha tarato i tempi e i valori del canone di concessione in modo che l’imprenditore privato fosse in grado di far quadrare un piano industriale, rientrare del suo investimento e realizzare profitti”. Per concludere, a nome della Community spezzina, con due incontestabili rilievi Il primo: “Si parla di privatizzazione dei porti e di regia unica, quando la necessità primaria sarebbe quella di garantire una pianificazione nazionale delle risorse allocate alla portualità mentre oggi ogni Autorità di Sistema Portuale riceve risorse pubbliche e realizza banchine e terminal che probabilmente non serviranno a nessuno e non potranno essere gestiti economicamente”. Il secondo: “È il caso di affermare con chiarezza che ormai da anni il traffico globale che gravita sui porti italiani ha un andamento stazionario (come spesso è stato constatato, ndr) e che un aumento record nell’offerta di servizi di movimentazione delle merci, specie container, come è quello in atto, otterrà solo un risultato: generare un altro gigantesco buco nei conti pubblici”. Questo è quanto. Il confronto è aperto ma, trattandosi di una ipotesi di riforma generale, su basi di ragionamenti concreti, al netto sia dell’ideologismo e delle rendite di posizione soprattutto di quelle “particulari” che avrebbero dovuto fare da tempo il loro tempo. E per carità non si usi il termine “riflessione” ormai così inflazionato da diventare sinonimo di strumento utile solo a snobbare la responsabilità delle scelte. Che incombono proprio per i motivi che ha spiegato Andrea Fontana.